All’inizio pensavamo di cavarcela con un’escursione. Nessuno di noi avrebbe osato pensare a un viaggio che avesse il rango della riscoperta. Il cammino, in quella fatidica primavera del 2015, ci ha sorpreso dicendoci il contrario. L’Appia antica la stavamo ritrovando, non solo ripercorrendo. Tanti, troppi erano i segmenti cancellati dal tempo; e da troppo tempo nessuno aveva preso integralmente in mano quel magnifico filo rosso. Eravamo di fronte al vuoto di memoria della nazione nei confronti di una traccia così gloriosa. Increduli che l’Italia avesse dimenticato quella linea – la prima via d’Europa – e non ne avesse fatto una sua icona, come la Spagna con il Cammino di Santiago.
Attraversando l’Agro pontino, le pendici dei Monti Aurunci o le sconfinate estensioni del Tavoliere, sentivamo che la strada – questo bene nazionale clamorosamente abbandonato – si era impossessata di noi, imponendoci un lavoro di restituzione all’Italia che non poteva concludersi con la camminata, ma doveva proseguire in altri modi, chiamando in causa non solo le istituzioni di governo, ma le stesse popolazioni locali interessate dal percorso. Non si trattava solamente di segnalare l’itinerario e di renderlo percorribile a piedi o in bicicletta, ma di riattivare un rapporto fra il Paese e questo nobile manufatto.
Questo perché la Regina delle vie non era stata solo sepolta dalla polvere del tempo e dell’oblio, ma manomessa, spesso scientemente, dagli italici saccheggiatori del territorio. In troppi punti la sua sublime bellezza paesaggistica era stata ricoperta di strati di asfalto, parcheggi, tangenziali, supermercati, cave, acciaierie, campi da arare, oppure sbarrata da cancelli, camuffata da nomi non suoi, ridicolizzata dalla mala-edilizia delle sanatorie o letteralmente presa a picconate stile Isis a Palmira. Troppo, per non chiedere agli Italiani un’assunzione di responsabilità e una presa in carico in vista di una grande operazione di rilancio.
Non eravamo ancora giunti al capolinea di Brindisi e già era chiaro a tutti noi che la storia non finiva lì, e che anzi il lavoro vero stava appena cominciando. Già di ritorno dal viaggio a piedi eravamo al ministero dei beni culturali per consegnare l’itinerario così come l’avevamo tracciato su Gps e per dichiarare la nostra disponibilità a collaborare alla valorizzazione della via. Nel giro di un mese usciva su “Repubblica” (su iniziativa della quale il viaggio era stato compiuto) una serie di ben 28 pagine intere dedicate al racconto della riscoperta. In contemporanea venivano messi a punto tre dvd di un’ora circa e una montagna di pillole audiovisive, il tutto messo in circolo dallo stesso giornale.
Già a settembre ripetevamo il viaggio allo scopo preciso di incontrare le popolazioni chiamate in causa dal nostro racconto, ottenerne nuove informazioni e soprattutto un appoggio forte, popolare, all’operazione di riscoperta. E mentre il ministero si metteva al lavoro, partiva la stesura di un libro – “Appia” – capace di offrire al Paese la chiave della via perduta. Ma il corollario di questa grande avventura vissuta “con i piedi” non poteva essere che una grande mostra documentaria che, quasi miracolosamente, con mezzi minimi, siamo riusciti a costruire al Parco della Musica di Roma. Quella che oggi sta girando il Paese lungo lo stesso itinerario della via e che approderà anche all’estero, diventando di fatto un simbolo europeo.
Paolo Rumiz, Riccardo Carnovalini, Antonio Politano, Irene Zambon